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Il "metus" del lavoratore ai fini della prescrizione estintiva: un archetipo confutabile

Fussli incubo analisi

Johann Heinrich Fussli, "L'Incubo", 1781

Una recente, interessante decisione della Corte d'Appello di Brescia, Sezione Lavoro, n. 259/2022, ritorna sul tema del decorso o meno della prescrizione estintiva dei crediti di lavoro in corso di rapporto:  su cui la discussione si è avviata  interrogandosi circa gli effetti, relativamente a tale istituto, delle riforme del 2012 e 2015, che hanno inciso sulla tutela massima o reintegratoria (art. 18 Stat. lav.)

Il ragionamento della Corte è apprezzabile per ampiezza ed oggettivitò, soprattutto laddove mostra di voler togliere al cd metus del lavoratore le vesti del postulato non più bisognoso di dimostrazione, una sorta di archetipo.

Non pare, al Collegio bresciano, che la situazione di tutela del lavoratore sia ontologicamente cambiata per effetto della riforma della l. 92/2012 e di quelle successive.

La configurabilità di un'inferiorità psicologica del lavoratore (che non avanzi pretese retributive nel corso del rapporto di lavoro per il timore di reazioni del datore di lavoro che portino all'interruzione del rapporto medesimo) va verificata facendo riferimento alla facoltà del lavoratore di impugnare un licenziamento intimato per ritorsione, e dunque discriminatorio, o per motivo illecito (ossia un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente in pendenza di rapporto di lavoro), ottenendo una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi ed sussistenti, e dunque su ragioni – veritiere - del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può più configurare la situazione psicologica in questione).

Sotto questo profilo, prosegue la decisione, la nuova formulazione dell'art.18 stat. lav. (e oggi del Jobs Act) non ha per nulla inciso sulla tutela reintegratoria e la permanenza del rapporto di lavoro, posto che entrambe le nuove discipline continuano a garantire questo tipo di tutela nel caso, appunto, di licenziamento discriminatorio o dovuto a motivo illecito (tra l'altro, non più esclusivo, ma solo determinante).

Il lavoratore, dunque, anche alla luce della nuova disciplina dei licenziamenti, dispone di adeguata tutela ripristinatoria, che, come in passato, gli garantisce la permanenza del rapporto di lavoro nel caso di reazioni ingiustificate e illegittime del datore di lavoro a proprie rivendicazioni retributive in corso di rapporto di lavoro.

Anche oggi, dopo le riforme della disciplina limitativa dei licenziamenti, il lavoratore non può temere la perdita del posto di lavoro per effetto della mera reazione del datore di lavoro alle rivendicazioni economiche da lui avanzate, perché in questo caso il lavoratore mantiene il diritto alla reintegrazione, e, all'evidenza, non ha alcun significato la circostanza che la stessa tutela sia divenuta piuttosto residuale negli altri casi di licenziamento illegittimo, perché la tutela minore nel caso di accertata insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo pretestuosamente addotti dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento intimato al dipendente (e la cui prova, è bene sottolinearlo, continua a competere al datore di lavoro), in realtà determinato unicamente dalla volontà di liberarsi del lavoratore “scomodo”, cede il passo a quella prevista per il licenziamento ritorsivo o discriminatorio.

Insomma, se il metus che può spingere il lavoratore a non rivendicare retribuzioni arretrate è il timore di subire rappresaglie (la più grave delle quali è il pericolo di essere licenziato per reazione alla rivendicazione), va sottolineato che anche dopo la legge Fornero e il Jobs Act al lavoratore dipendente di aziende con più di 15 dipendenti è assicurata una tutela ben più incisiva di quella sempre meramente obbligatoria assicurata dall'art. 8 legge 604/66 e sembra di poter dire che anche dopo le modifiche all'art. 18 Stat. lav. si possa escludere che il lavoratore si trovi in una effettiva situazione psicologica di metus.

Ed invero, opinare diversamente comporta, sotto il profilo della valutazione dell'inerzia circa la rivendicazione di crediti retributivi, la piena equiparazione tra la situazione dei dipendente di piccola e piccolissima impresa, dove normalmente la presenza sindacale è assente o comunque debole, e dipendente di grandi imprese ove sono efficacemente attive  organizzazioni sindacali a tutela dei lavoratori.

Una simile equiparazione appare difficilmente giustificabile, specie considerando che la sussistenza del metus è pur sempre un presunzione.

Se è fondato presumere il metus in caso di piccole imprese, dove il rapporto presenta caratteristiche di spiccata personalizzazione tra datore di lavoro e dipendente, chiaramente molto diversa è la situazione all'interno di una grande impresa, dove il rapporto è molto più spersonalizzato e dove vi è normalmente una presenza sindacale attiva ed efficace. Senza contare gli effetti che si produrrebbero sulla certezza del diritto, che costituisce pur sempre la ragione giustificatrice dell'istituto della prescrizione dei diritti.

Infatti, se tutti i lavoratori, anche di imprese con centinaia e centinaia di dipendenti, potessero rivendicare alla fine del rapporto pretese economiche senza limiti di tempo (con il solo limite di agire entro 5 anni dalla cessazione del rapporto), il valore della certezza dei diritti, connessa alla mancata rivendicazione del credito protratta nel tempo, ne risulterebbe senz'altro pregiudicato, onerando l'azienda, specie in caso di rapporti di lunga durata, di provare fatti estintivi del credito a grande distanza di tempo.

Non è dunque condivisibile, si conclude, affermare l'effetto interruttivo del termine di prescrizione derivante dall'entrata in vigore nel luglio del 2012 della legge Fornero.